San Severino

Il territorio di San Severino è fitto di frazioni rurali e di case sparse. Dalla città si dipartono le propaggini collinari della zona montuosa che attraverso Serripola, Ugliano, Chigiano e Valdiola, arrivano al monte San Vicino.

La resistenza armata si sviluppò nella zona di San Severino subito dopo l’8 settembre, quando si costituì la banda Mario, dal nome del suo comandante Mario Depangher. Di origini istriane, era stato internato da poco tempo a San Severino. Il suo lungo passato di lotte e di carcere fascista, lo avevano reso abile nell’intuire il corso degli eventi e nel prendere l’iniziativa: fin dal 25 luglio organizzò incontri e predispose piani di azione, in vista del momento in cui si sarebbe passati all’azione diretta.

La banda era costituita prevalentemente da persone provenienti dalla zona, ma anche da numerosi slavi e alcuni abissini, russi, francesi e inglesi. Sebbene la presenza marginale di altri gruppi, la banda Mario, poi ≪I° Battaglione Mario≫, ha costituito, per dieci mesi, l’esperienza resistenziale più rilevante nel territorio sanseverinate. Pur non esaurendo la sua attività nella zona, vi è rimasta comunque sempre dislocata, incidendo profondamente nel tessuto sociale e politico della sua popolazione.

La prima preoccupazione del gruppo fu quella di procurarsi armi e munizioni. Per questo vennero svolti unaserie di interventi di prelevamento come quello al deposito di munizioni al ponte di S. Antonio, ai depositi della caserma di San Domenico, allora affidati in custodia ai RR.CC. e al campo di concentramento di Sforzacosta, come ricorda il comandante Depangher: ≪…dopo lunghe trattative il maresciallo Giordano, comandante la locale stazione dei RR.CC., si decide a lasciarsele portar via. Per non compromettere i custodi si da al forzamento una certa parvenza realistica e nella notte del 27 settembre, previa sparatoria, pochi uomini realizzano la non difficile impresa. (…) Poca ruba, ma sempre meglio di niente≫ (Piangatelli 1985, p.53). Il materiale veniva occultato in parte nel campanile della chiesa di San Giuseppe, per l’intermediazione del sacrestano Germani, fedele militante comunista.

In seguito all’arrivo dei tedeschi a Macerata e al susseguirsi dei bandi emanati nel mese di settembre, anche i partigiani della banda Mario cominciarono a prestare maggiore attenzione. Esplicativi sono l’esplicito avvertimento che il 27 settembre fecero al carceriere del carcere di San Severino e il fermo a San Pacifico, sempre in quei giorni, di due presunte spie.

Il primo ottobre si verificò un primo episodio di scontro tra i partigiani e le forze nazifasciste, sopraggiunte nella mattina a San Severino con l’intenzione di catturare i ribelli e il maresciallo Giordano, accusato di essere un loro collaboratore. Sebbene ci siano diverse versioni su come andarono i fatti – secondo la testimonianza di Depangher, fu catturato ma riuscì a fuggire nel corso del tragitto dal camion, mentre secondo Rodolfo Sarti, messosi abiti borghesi, era già fuggito al loro arrivo – quel che è certo è che il maresciallo alla fine non venne fermato (Piangatelli 1985, p.55). I tedeschi, ipotizzando che si fosse rifugiato presso i partigiani, chiesero rinforzi per una più imponente spedizione punitiva. Pertanto nel pomeriggio, San Severino fu messa sotto assedio da reparti tedeschi e fascisti, a cui si unirono anche i fascisti locali. I partigiani si erano piazzati con le loro mitragliatrici nella zona del santuario di San Pacifico, mentre i tedeschi si piazzarono al Castello, presso Porta San Francesco. Con il sopraggiungere del buio, i partigiani si ritirarono verso la zona montagnosa alle loro spalle, mentre i tedeschi e i fascisti rinunciarono all’operazione. Secondo la testimonianza di Depangher, alla fine, ci furono quattro morti e dieci feriti tra i tedeschi e due feriti tra i partigiani (Piangatelli 1985, p.57). Ma anche una vittima innocente tra la popolazione. Si trattava di Umberto Gazzarotti, un giovane contadino di Serripola che in quel giorno si trovava a lavorare nella valle delle Grotte di San Eustachio, in una zona adiacente a quella dello scontro: ≪Tornava stanco dal suo lavoro quando improvvisamente fu circondato e fermato da un gruppo di soldati tedeschi accompagnati da un ufficiale italiano che andava perlustrando la zona in cerca di patrioti. Gl’imposero con feroci intimazioni di indicare loro dove stavano i partigiani, minacciando di ucciderlo se non avessero parlato. In preda al terrore, implorava pietà, domandava di essere lasciato libero poiché egli non aveva mai visto nessuno girare in quei luoghi. A nulla valsero le sue suppliche: con freddo disprezzo ed inumana crudeltà, uno degli sgherri lo spinse brutalmente lontano mentre un secondo lo colpiva a morte…≫ (Piangatelli 1985, p.57). Il giorno successivo, le forze nazifasciste fecero una seconda incursione a San Pacifico, non ottenendo tuttavia nessun risultato: i partigiani, a piccoli gruppi, si erano sparpagliati verso le alture soprastanti. Subito dopo lo scontro, per esigenze organizzative e di sicurezza, il gruppo lasciò la sua base per trovare un momentaneo appoggio a Chigiano e poi, dal 25 ottobre, trasferirsi a Valdiola. Questa, un agglomerato di poche case in un’ampia conca contornata dai monti al di là dei quali si estende la vallata dell’Esino e Matelica, vicino alle altre località in cui si stavano costituendo le altre bande partigiane: il Monte San Vicino, la Porcarella, Cingoli, Apiro.

L’episodio del maresciallo Giordano trovò ampio risonanza nel territorio maceratese, tanto che ne parlerà, in uno dei primi numeri, anche il giornale clandestino “L’Aurora”. A sua volta, lo scontro di San Pacifico, costituì il battesimo del fuoco per la banda Mario e si trattò del primo episodio di guerra in provincia di Macerata, che si verificò contemporaneamente ai fatti sul Colle San Marco, ad Ascoli Piceno.

Il successo delle operazioni portate a termine nel corso del primo mese di lotta e anche la tempestività delleinformazioni che pervenivano ai partigiani, erano dovute all’attività di supporto organizzativo svolta dal locale Comitato di Liberazione, di cui fu presidente fino al dicembre del 1944, Andrea Farroni.

Dall’ottobre 1943 al marzo 1944, il gruppo fu impegnato nel recuperare un sufficiente armamento, nel procurarsi viveri e vestiario, e nel sabotare i rifornimenti del nemico. Aprirono i magazzini del grano e quelli della lana, impedirono l’ammasso del lardo, dell’olio e del bestiame. L’apertura dei silos di grano era un’operazione al tempo stesso politica, militare e sociale: in questo modo sabotavano i rifornimenti delle forze tedesche e fasciste, si auto approvvigionavano e aiutavano la popolazione.
Inoltre cercarono di sostenere e intensificare il sabotaggio al reclutamento dei giovani, cui i fascisti risposero con un ampio rastrellamento lo stesso giorno di Natale. Numerosi reparti a bordo di vari automezzi si portarono da Macerata a San Severino, piazzarono in punti strategici della città le mitragliatrici e, terrorizzando la popolazione, cominciarono a cercare i renitenti.

Le autorità tedesche erano effettivamente preoccupate dalle continue operazioni di sabotaggio dei partigiani della banda Mario e per questo, già nei mesi di gennaio e febbraio, si ebbero vari scontri in cui tentarono di bloccarli e di riacquistare il controllo del territorio.Tuttavia, è solo dalla seconda metà di marzo che si delineò una situazione militare ben precisa: in vista del ripiegamento tattico dai fronti di Cassino e d’Abruzzo, le truppe tedesche necessitavano di eliminare definitivamente la presenza delle formazioni partigiane. Dal 12 marzo in poi le bande partigiane dell’intera regione furono impegnate, in rapida successione, in duri scontri: da Pozza e Umito, da Acquasanta nell’Ascolano a San Maroto, al Fiastrone, a Visso, a Macereto, a Montemonaco e nella zona di Fiastra, a Monastero e Montalto.

Nella notte tra il 23 e il 24 marzo 1944 circa 2000 tedeschi e fascisti armati di mortai, mitragliatrici pesanti e leggere, arrivando da più fronti, puntarono all’accerchiamento del I Battaglione Mario, scatenando la cosiddetta ≪battaglia di Valdiola≫. I partigiani guidati da Depangher, coadiuvati dai gruppi Cingoli e Porcarella, si difesero strenuamente impedendo che l’obbiettivo del nemico – disperdere le bande del San Vicino – fosse raggiunto.

Difatti i partigiani del ≪Mario≫ diedero prova della loro presenza con nuove azioni, a partire da quella condotta il giorno successivo, 25 marzo, su San Severino. La sera, una trentina di partigiani entrarono nella città: un parte si diresse all’albergo Massi dove solitamente cenavano vari fascisti locali, un secondo gruppo occupò la stazione ferroviaria e un terzo aveva il compito di sabotare il telegrafo ed il telefono, per togliere ai fascisti ogni possibilità di chiedere rinforzi. L’attacco però prese una piega imprevista. Infatti, un colpo partito accidentalmente dal mitra del comandante Depangher, oltre che ferire un compagno, diede l’allarme ai fascisti presenti nel ristorante, che fuggirono verso la caserma dei carabinieri, in piazza. Lì, nel frattempo, gli uomini del secondo gruppo stavano disattivando il centralino. Così quando compresero che stava accadendo qualcosa di strano, aprirono il fuoco contro le finestre della caserma, da cui cominciò a piovere bombe a mano, che ferirono uno degli uomini. Nel corso della vicenda, accadde un fatto ancora oggi poco chiaro nei suoi sviluppi e di cui non si ama molto parlare: un giovane fascista, con un più anziano camerata incontrato casualmente lungo la strada, furono fermati da alcuni partigiani, condotti in una via periferica e fucilati.

Il giorno successivo, giunsero a San Severino rinforzi da Macerata. Il capo della provincia Ferazzani aveva stilato un elenco di antifascisti da arrestare ma alla fine fu convocato solo l’avv. Turchi, noto esponente del Partito Popolare, rilasciato dopo una serie di umiliazioni.

Alla fine del mese di aprile si dispiegò una seconda ondata di rastrellamenti in tutta la regione. Il 26 aprile, battaglioni misti italo-tedeschi tentarono un nuovo attacco anche nella zona del San Vicino, in quella che viene ricordata come la ≪seconda battaglia di Valdiola≫. Nei giorni successivi, il notevole aumento del numero dei partigiani affluiti in montagna rese necessaria una nuova organizzazione del Battaglione Mario, il quale venne trasformato nel Comando Divisione Mario.

Durante le prime settimane di giugno, San Severino assistette al passaggio sempre più intenso delle colonne di militari tedeschi che, utilizzando qualsiasi mezzo di locomozione, si dirigevano verso nord. Già il 10 del mese gruppi partigiani entrarono liberamente nella città, tuttavia la ritirata delle forze germaniche poteva porre il rischio della rappresaglia sulla popolazione, come si verificò a Camerino e Capolapiaggia, e per questo il comandante Depangher raccomandò ai suoi distaccamenti di evitare qualsiasi azione che potesse comportare una ritorsione sui civili. Solo il 1° luglio 1944, con due giorni di anticipo sull’arrivo delle truppe alleate, il comandante Depangher con i suoi uomini entrarono ufficialmente a San Severino: suddivisi in due colonne provenienti dal ponte di Sant’Antonio e da Fontenuova, fecero il loro ingresso in città portandosi nella piazza centrale dove si era riunita la cittadinanza. Dalla terrazza del palazzo comunale, il comandante tenne un solenne discorso in cui ricordò le più importanti esperienze fatte nei mesi in montagna e i caduti morti nella speranza di un’Italia libera.

Bibliografia
Anpi “Medaglia d’Oro Capitano Valerio” (a cura di), Ribelli per amore. I sacerdoti marchigiani nella Resistenza, [S.l. : s.n.] 2005.
Anpi San Severino Marche, La Resistenza a San Severino. Testimonianze, stampa 1993.
Comitato Cittadino Celebrazioni Ventennale della Resistenza (a cura di), La Resistenza in San Severino Marche (8 settembre 1943-1 luglio 1944), Bellabarba, San Severino Marche 1965.
G. Piangatelli, Tempi e vicende della Resistenza a San Severino Marche, ANPI, Macerata 1985.
C. Traversi, La Resistenza nel Sanseverinate, San Severino Marche 1977.