Recanati, 5 novembre 2023
La Guerra non è mai Grande
Discorso di Roberto Giulianelli (Istituto Storia Marche)

Nel corso della Prima guerra mondiale morirono tra i 9 e i 12 milioni di militari e tra i 5 e i 12 milioni di civili. Si tratta di un bilancio molto approssimativo, che poggia su dati largamente incompleti, perché raccolti con strumenti impreparati a misurare le conseguenze di un evento imprevisto e inconcepibile nella sua ampiezza. L’Italia lasciò sul campo 650.000 militari, più 600.000 vittime civili, in larga parte stroncate dalla Spagnola, la pandemia influenzale che si accese nell’ultimo scorcio del conflitto e che il conflitto contribuì a diffondere.

Va da sé che la morte, soprattutto se violenta, costituisce un evento terribile al di là di chi ne sia vittima. Se però le vittime si concentrano nelle classi di età inferiori, cioè fra i giovani, l’evento diventa ancora più spaventoso. In Francia perse la vita il 30% dei soldati arruolati fra il 1912 e il 1915. In Germania, morì oltre un terzo degli uomini che, allo scoppio della guerra, avevano un’età compresa fra i diciannove e i ventidue anni. In Italia ci fu il noto caso della classe del ’99. Non sappiamo con esattezza quanti, di quei diciottenni, non tornarono a casa: sappiamo, però, che furono in 260.000 a essere spediti in prima linea dopo la disfatta di Caporetto.

Il conflitto fece anche milioni di feriti. John Keegan, autore di uno dei migliori saggi sulla Prima guerra mondiale, ha scritto a proposito di quelli francesi: alcune centinaia di migliaia furono definiti grands mutilés, soldati che avevano perso gli arti oppure gli occhi. Forse i più colpiti – osserva Keegan – furono quelli con ferite che sfiguravano il volto: alcuni di loro erano così orribili a vedersi che furono istituiti dei centri riservati in campagna dove trascorrevano le vacanze.

Dall’“inutile strage”, come la definì Benedetto XV, non vennero solo morti, feriti e mutilati, ma anche vedove, orfani, padri e madri privati dei figli. Vennero anche gli “scemi di guerra”, soldati che furono ricoverati negli ospedali psichiatrici per curare gli effetti devastanti, e spesso permanenti, dello choc subito al fronte. Automi, svuotati di ogni volontà e capacità di pensiero; oppure allucinati, in preda a convulsioni e in continuo stato di alterazione. In Italia, se ne contarono quarantamila. L’Ospedale psichiatrico di Ancona ne accolse poco meno di seicento fra il 1915 e il 1918. Molti, anche se non guariti, furono infine dimessi e affidati alle rispettive famiglie, di lì in avanti condannate a condividere insieme a loro un incubo indicibile.

Si andò a riempire, così, un enorme serbatoio di dolore e disperazione. Con il dolore si può imparare a convivere. Con la disperazione, no. Milioni di persone, per lo più residenti in Europa – il continente che per secoli e fino allo scoppio del conflitto era stato il più ricco, potente e avanzato del mondo –, scoprirono all’improvviso che la modernità, intesa come progresso della conoscenza scientifica e tecnologica, non rappresentava una garanzia per il mantenimento del senno. Per paradosso, proprio il mito della modernità, se mal interpretato o mal gestito, poteva condurre alla sospensione della ragione. Fra il 1914 e il 1918 milioni di persone, per decenni convinte che progresso tecnico-scientifico e pace fossero sinonimi, si ritrovarono senza la possibilità di darsi una speranza.

Nel cancellare miti relativamente nuovi ma presto logori, la Prima guerra mondiale fu Grande. E Grande fu nel costruirne degli altri, come l’eroismo dei caduti in battaglia, in Italia riassunto dalla figura del milite ignoto. La Prima guerra mondiale fu Grande anche nella capacità di coinvolgere ogni segmento della popolazione europea e mondiale, in un gioco di interessi economici e politici al quale nessuno seppe o intese sottrarsi. Non vi si sottrassero nemmeno i partiti socialisti, sulla carta pronti a rovesciare lo Stato borghese, al quale tuttavia si affiancarono in tutta Europa al momento della chiamata alle armi. Fece eccezione il Partito socialista italiano, che prese le distanze dalla guerra, trincerandosi tuttavia dietro lo slogan ambiguo di “né aderire, né sabotare”.

Tutti – militari e civili – furono chiamati a sostenere lo sforzo bellico. I civili lo fecero, anzitutto, sposando in massa le tesi avanzate da governi e parlamenti per giustificare il conflitto. In questo senso, la Prima guerra mondiale fu un poderoso esercizio di retorica e di propaganda. La retorica e la propaganda necessarie per convincere centinaia di milioni di persone, di entrambi gli schieramenti, a essere, tutte, dalla parte della ragione e a considerare in torto, e perciò nemico, lo schieramento opposto.

Alla raccolta del consenso iniziale, indispensabile per accendere la miccia, si aggiunse presto il coinvolgimento. “Per la Patria, fate tutti il vostro dovere”, si legge in uno dei manifesti che invitavano a sottoscrivere i prestiti nazionali lanciati dal governo italiano per finanziare la guerra, i cui costi andarono presto fuori controllo. “Per la Patria i miei occhi. Per la Pace il vostro denaro”, recitava un altro manifesto, dove era ritratto un soldato dal viso avvolto in bende. “Nostro padre ha dato la vita, voi non negherete il denaro”, intimavano due piccoli orfani, riprodotti in un altro ancora.

Il ricatto morale fu una delle armi impiegate con maggiore insistenza durante il conflitto. Fu usato nei riguardi delle madri con il cuore gonfio di ansia per i figli arruolati. Fu usato anche contro gli uomini che, per un qualche motivo, l’arruolamento erano riusciti a evitarlo: i soldati al fronte li definivano “imboscati” e “traditori”, e presero a covare verso di loro un odio sempre più acceso. L’odio per un nemico che non stava al di là della trincea e portava una “divisa di un altro colore”, ma un “nemico interno”, ancor più disprezzabile perché pronto ad approfittare del sacrificio di chi, la guerra, la faceva davvero e in guerra ci moriva.

Fra quanti restarono a casa, molti si trovarono coinvolti nell’immane sforzo produttivo che tutti i paesi belligeranti promossero per sostenere le forze militari. Fu la Mobilitazione industriale: un progetto che portò all’arruolamento di migliaia di fabbriche e laboratori privati, messi al servizio dello Stato. Il mercato e ogni traccia di liberismo vennero accantonati, per fare posto a una macchina pubblica dalle dimensioni gigantesche. Sugli “stabilimenti ausiliari” – così gli impianti coinvolti furono chiamati – piovvero ordinativi senza sosta, accompagnati da pressanti inviti a far presto, perché la guerra è un animale che fagocita risorse e ne ha sempre fame.

Con milioni di operai partiti per il fronte e crescenti commesse governative da soddisfare, gli “stabilimenti ausiliari” furono costretti ad attingere a manodopera nuova. Anche femminile. Fabbriche siderurgiche, meccaniche e chimiche aprirono i propri cancelli alle donne. Non che le donne non avessero mai lavorato nelle manifatture! Filande e tabacchifici – tanto per ricordare impianti diffusi anche nelle Marche – sin dal ‘700 presentavano un’altissima concentrazione di manodopera femminile. Erano però manifatture tradizionali, lasciti più o meno aggiornati dell’età preindustriale. La Prima guerra mondiale offrì alle donne l’occasione di fare ingresso nell’età contemporanea e di rimuovere, almeno per una manciata di mesi, il pregiudizio che le voleva incapaci di assolvere i compiti richiesti negli impianti più moderni.

In Italia furono duecentomila le donne reclutate nella Mobilitazione industriale. Fu una tappa straordinaria sulla strada dell’emancipazione femminile. Straordinaria sia perché inedita, sia perché destinata a non durare. Una volta messi a tacere i cannoni, il ritorno dei reduci, la crisi in cui precipitarono le economie di tutti i paesi ex belligeranti e l’idea, mai sopita, che al pane deve pensare l’uomo, mentre alle donne spetta la cura del marito e dei figli, ricacciarono le operaie all’interno delle mura domestiche.

La Prima guerra mondiale fu anche un eccezionale esercizio di dissenso. Non tanto quello politico, profuso a colpi di penna e di cortei, peraltro ben presto proibiti in tutti i paesi. Quanto piuttosto il dissenso espresso al fronte, dove i combattenti dell’una e dell’altra parte sottoscrissero accordi taciti – patti di trincea – in una sorta di mutuo rispetto, che aveva l’obiettivo di neutralizzare il conflitto come governi e parlamenti non erano intenzionati a fare. Un conflitto di cui, già qualche mese dopo la sua esplosione, pochi riuscivano a ricordare le cause, nessuno a prevedere le conseguenze.

Il dissenso assunse anche altre forme, più individuali e perciò più facilmente soggette a repressione da parte delle autorità. In Italia, fra il 1915 e il 1918 vennero denunciati 870.000 militari, si svolsero 350.000 processi e 170.000 furono le condanne, in larga misura per diserzione: 15.000 gli ergastoli, 4.000 le pene di morte comminate, 750 delle quali infine eseguite.

La Prima guerra mondiale ha lasciato un’eredità profonda. Non solo ha creato le condizioni per il conflitto del 1939-45, ma ha condizionato l’intero Novecento, fino ai nostri giorni. Lo ha fatto anzitutto ridisegnando i confini politici del Vecchio continente. Dalla dissoluzione degli Imperi centrali germogliarono nuovi Stati. Li composero, a tavolino, i paesi vincitori, consapevoli di violare il principio dell’autodeterminazione dei popoli, che il presidente americano Wilson aveva suggerito di porre a fondamento dell’auspicato, però mai raggiunto, nuovo equilibrio mondiale.

Come sempre accade al termine dei conflitti, i vincitori dimenticarono gran parte degli ideali sbandierati all’ingresso in guerra. E si concentrarono sulla spartizione del bottino. Se ne dimenticò anche il governo italiano, pretendendo Alto Adige, Istria e Dalmazia, oltre a Trento e Trieste, che durante le “radiose giornate di maggio” erano state le sole terre invocate a completamento del processo di unificazione nazionale.

Sappiamo come andò a finire in Italia. La frustrazione per la presunta “vittoria mutilata” si saldò con l’instabilità economica e sociale del dopoguerra e gli echi della Rivoluzione d’Ottobre, ponendo le basi per un nuovo conflitto, stavolta interno. Ne uscì vincitore il fascismo, un orrore figlio della stessa guerra e, poco più tardi, fonte di ispirazione per Hitler e il suo Partito nazionalsocialista.

Per concludere, dalla tragedia del 1914-18 possono trarsi almeno quattro considerazioni di ordine generale, che raccontano quel passato, ma interrogano anche il presente.

Prima considerazione. Nelle guerre, tutti i contendenti accompagnano il ricorso alle armi con ragioni che pretendono essere salde e indiscutibili. Nel primo conflitto mondiale, le ragioni addotte furono varie: la risposta a una grave provocazione, chiamata in causa dall’Impero asburgico e da quello tedesco; la difesa dei propri confini, invocata dalla Francia; la tutela dell’ordine europeo e mondiale, sventolata da Inghilterra e Stati Uniti; e così via. Furono ragioni talvolta pretestuose, talvolta invece sincere e dettate da un reale stato di necessità. In ogni caso, furono ragioni che – come sempre accade al prolungarsi di un conflitto – andarono stemperandosi, fino a perdere per intero, o quasi, la loro carica iniziale.

Seconda considerazione. Le guerre non hanno padroni, né amministratori. Non possono, cioè, essere governate. Nell’estate del 1914 gli alti comandi tedeschi si dicevano certi che il Piano Schlieffen avrebbe funzionato, sbaragliando qualunque resistenza nel volgere di poche settimane. In poche settimane, invece, la “guerra lampo” si trasformò in una estenuante e illogica “guerra di posizione”, che la Germania per giunta perse. I conflitti, nel loro andamento, nel loro perimetro e nei loro esiti non sono mai davvero prevedibili, checché ne dicano coloro che li fomentano o anche solo li giustificano.

Terza considerazione. Le guerre lasciano conseguenze imprevedibili, alcune delle quali fragorose e palesi, altre invece silenti e carsiche. Il Primo conflitto mondiale ha dimostrato come queste ultime siano le più insidiose per il ripristino di una civile comunità internazionale e il mantenimento della pace.

Quarta e ultima considerazione. La storia, purtroppo, non è mai maestra di vita. Se lo fosse, non avremmo avuto la Seconda guerra mondiale. Né avremmo avuto molti altri conflitti successivi che l’Occidente ha per lungo tempo sottovalutato, descrivendoli come regionali e periferici, dunque incapaci di minacciare l’ordine disegnato dopo il 1945.

Credo che queste quattro considerazioni, oggi, siano valide più che mai. Occorrerebbe tenerne conto quando si discute intorno a ciò che sta accadendo in territori che ci coinvolgono molto più di quanto − forse per miopia, forse per esorcizzare le nostre paure − per decenni ci è piaciuto credere.